Newsletter 14 – Il campanile di San Biagio e un “ataifor” ispano-moresco
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Il campanile di San Biagio e un “ataifor” ispano-moresco
Dall’Andalusia a Finalborgo
Il campanile della chiesa di San Biagio a Finalborgo è stato finalmente liberato dai ponteggi ed è tornato ad essere una delle torri campanarie più fotografate d’Italia, dopo un restauro che lo sta riportando alle forme originali con la riapertura di alcune bifore prima murate.
La sua forma ottagonale, le slanciate lesene con cantonali in Pietra di Finale accuratamente squadrati, le finestre a bifora e il coronamento a balaustra che circonda la slanciata cuspide lo rendono uno dei più prestigiosi esempi dell’architettura del secondo Quattrocento ligure. I modelli peraltro, più che verso la Milano viscontea e il campanile ottagonale in laterizi della chiesa di corte di San Gottardo, vanno ricercati in quell’architettura dell’Italia centrale che si impose in Italia grazie ad architetti toscani.
D’altro canto i termini cronologici sono ormai ben noti: Giovanni Andrea Silla nel 1922 aveva pubblicato l’atto col quale i massari della chiesa il 2 agosto 1463 vendevano per 27 lire di Finale dei terreni lasciati da Giovanni Del Carretto per pagare al maestro muratore milanese Bartolomeo Mutano dei cantonali in Pietra di Finale lavorati sulla pendice di Monticello. Tre anni dopo, nel 1466, nel suo primo testamento, Giovanni I Del Carretto, lasciava alla chiesa di San Biagio 60 ducati destinati all’opera campanilis.
Lo stemma carrettesco e un tondo con il trigramma bernardiniano YHS, scolpiti a rilievo su una lesena, sono coerenti con le date sopra riportate e richiamano l’intervento marchionale.
Come da tempo noto, nell’arcatella delle bifore dell’ordine inferiore sono inseriti tre “bacini” in maioliche di diversi tipi, datazione e origine: un grande piatto ispano-moresco; una maiolica policroma con decori “a palmetta persiana” probabilmente di Montelupo in Valdarno; una coppa amatoria baccellata decorata in bianco-blu con un cuore trafitto, di produzione centro-italiana.
I principali problemi sono posti dal grande piatto, o ataifor, che nel 1972 un ricercatore inglese, Hugo Blake, aveva ricondotto alle produzioni “a lustro tardo andaluso-primo catalano con decorazione a lustro a risparmio” di fine XIV o inizi XV secolo, attribuzione e datazione in seguito riprese da vari studiosi.
In realtà, una nuova lettura molto convincente è stata di recente avanzata da Caterina Pittera. Riprendendo le sue parole, si tratterebbe di un piatto con cavetto poco profondo e concavo, a tesa inclinata e bordo leggermente evidenziato con un complesso decoro costituito da un triangolo tracciato con una sottilissima linea in blu al centro dal cavetto; dai suoi vertici si dipartono tre palmette decorate da un elaborato motivo ad arabesque in blu. Attorno alle palmette è presente una decorazione finissima in lustro bruno, che ne profila il contorno. Lo sfondo del piatto è suddiviso in lustro da motivi decorativi vegetali resi a risparmio. Sulla tesa scorre invece un motivo pseudo-epigrafico in caratteri cufici.
Il piatto sembrerebbe quindi attribuibile a una produzione nazarì andalusa, per il motivo a piña campito ad arabesque e quello a “albero della vita”, eseguiti con una cura che raramente i pezzi catalani prodotti a Valencia e Paterna sembrano mostrare. I confronti riconducono a maioliche dell’area andalusa, in particolare con un piatto proveniente dall’Alhambra di Granada.
Si tratta quindi di un oggetto di grande pregio, importato dalla Spagna e conservato a lungo, forse dalla stessa famiglia marchionale, per essere infine collocato in un momento tardivo sul campanile, destinato a divenire uno dei monumenti più prestigiosi del Finale carrettesco.
[GM]
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